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Riscatto

"Bergamo è una piccola storia, ma è la mia storia"

C’è stato un tempo in cui l’Italia non era in crisi. C’è stato un tempo in cui il mondo ci guardava con ammirazione; in cui, partendo dal fondo della classifica, ogni anno il nostro Paese scalava posizioni. E la vita di milioni di italiani visibilmente migliorava. Più istruzione, più occupazione, più reddito, più consumi. C’è stato un tempo in cui tutto ciò si traduceva in maggiore fiducia nel futuro, nella concreta speranza di vedere via via progredire la propria condizione, e questo incoraggiava a mettere al mondo più figli, perché si sapeva che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei loro genitori.

Io sono nato in quel tempo, per l’esattezza nel marzo del 1960. Ero dunque troppo piccolo per apprezzarne lo spirito; devo però averne respirato l’aria, perché me n’è rimasta la nostalgia. Non mi si fraintenda: la qualità di vita di quegli anni era mediamente di molto inferiore a quella di cui godiamo oggi. Si moriva prima e molti di più erano i poveri e gli analfabeti. Il reddito medio era di gran lunga più basso rispetto a oggi. Non era certo un’età dell’oro. Eppure eravamo più ottimisti e più orgogliosi di noi stessi.

È di quello spirito che sento la mancanza. Da allora – da che ho potuto rendermene conto – ho l’impressione di aver vissuto in un Paese costantemente in crisi, eccezion fatta forse per gli anni Ottanta, che l’esplosione della spesa pubblica ci fece percepire come «affluenti» e non già per ciò che erano: una stagione di cicale di cui ancora oggi paghiamo il conto. Per il resto, quasi sempre crisi. Quasi sempre in fondo alle classifiche europee. Da vent’anni almeno, praticamente al palo. Dal 2008 in poi, non ne parliamo. Più in crisi degli altri, non ne siamo mai veramente usciti.

Crescita, produttività, istruzione, natalità, equità, efficienza delle istituzioni, pubblica amministrazione, giustizia, legalità, senso civico: dove ti giri ci sono cose che non funzionano e che sembriamo incapaci di affrontare e risolvere. In più ci è toccato il populismo, la seduzione di un popolo scontento, a regalarci la peggior classe dirigente del dopoguerra. E il COVID, quando già stavamo sul filo della recessione, dopo un anno di governo gialloverde che ha fatto danni e molti di più ne avrebbe fatti se il «Capitano» non fosse andato fuorigiri.

Nella mia città, Bergamo, nella mia provincia, l’epidemia è esplosa con violenza inimmaginabile, mietendo migliaia di vittime. Per fortuna non è stato ovunque così, ma in ogni parte del Paese ha lasciato una pesante eredità, a partire dal crollo della produzione, dei consumi e dell’occupazione più fragile. E tuttavia lì, di fronte a questo nuovo nemico, sorprendendo noi stessi, abbiamo retto dignitosamente, meglio di molti altri Paesi, mostrando un senso di responsabilità, una capacità di reazione su cui non avremmo scommesso.

È sufficiente per dire che l’Italia è guarita, che siamo diventati un esempio, che siamo alla vigilia di un nuovo Rinascimento? Troppo spesse le incrostazioni, troppi snodi di funzionamento da rivedere in profondità, troppa manutenzione in arretrato. Ma già sarebbe bastato questo refolo di fiducia in noi stessi per indicarci la via. C’è una strada fatta di impegno, serietà, sacrificio, coraggio, generosità, che contiene la possibilità di riscattare il nostro Paese dalla mediocrità, dalla crisi che ne accompagna la storia recente e dalla prospettiva di un declino altrimenti inevitabile. È una strada che passa dai cittadini prima che dalla classe politica; quella verrà di conseguenza, se gli italiani sapranno dove andare. E che richiede innanzitutto il recupero del senso di un destino comune, come quello che avevamo dopo la guerra, quando si trattava di ricostruire un Paese in ginocchio, e che abbiamo sentito d’avere nei mesi più duri del COVID. Tutti sulla stessa barca, e perciò obbligati a remare con buona lena nella stessa direzione.

Bergamo, in questa storia recente, per lo meno nel 2020, si è vista assegnare un ruolo che avrebbe volentieri evitato, quello della città più colpita. Ma questo ha spinto la città a mobilitarsi intorno a valori di solidarietà, e oggi a impegnare ancora più energia per rimettersi in piedi, ferma nell’intenzione – se di simboli bisogna parlare – di provare da qui in poi a incarnare non più quello di una tragedia ma quello di una rinascita.

Riscatto è dunque un titolo che mi è venuto dal cuore, mescolando la vicenda della mia città e ciò che spero possa ancora accadere al nostro Paese; l’insofferenza per le troppe cose che in Italia non funzionano e la speranza di vedere gli italiani finalmente reagire, ritrovare l’amore per il proprio Paese e il desiderio di migliorarsi.

Bergamo è una piccola storia, ma è la mia storia. Da lì prendo il mio carattere e la forza che mi manda avanti. E in questo caso un’ispirazione in più. Non ho soluzioni facili, non mi candido a nulla. Spero però di riuscire con queste pagine a trasferire la voglia e l’urgenza di darsi da fare, seriamente, nei tanti modi in cui è possibile e utile farlo. Se la vicenda italiana ha preso questa piega è anche perché tanti che avrebbero potuto  impegnarsi e fare la differenza sono rimasti a guardare.

Ora non si può più. Se «riscatto» vogliamo che sia, è necessario che anche loro si mettano in cammino.

Scrivere un libro non era nei miei programmi, non lo è mai stato e a maggior ragione quest’anno. Ho sempre pensato che non fosse nelle mie corde, e che ci fosse bisogno di un tempo, di una sospensione dell’azione, per mettere in fila le idee e dar loro una forma accettabile: e quando mai. Quest’anno poi, con quello che è accaduto, di tempo per pensare ce n’è stato ancora meno. Eppure eccoci qua. La colpa è di Cristiano Peddis e di Francesco Cancellato. Il primo, editor della saggistica Rizzoli, per avermi sollecitato a farlo con paziente insistenza; il secondo – giornalista di rango, oggi direttore di «Fanpage» – per avermi aiutato a capire di cosa valesse la pena parlare e soprattutto per aver immaginato una forma, che per una qualunque attività espressiva è di gran lunga la cosa più importante. È bastata una chiacchierata con lui per convincermi che era il giusto compagno per questo azzardo. Grazie, dunque: senza di loro Riscatto non ci sarebbe stato.

Scrivendo, rispondendo alle domande con cui Francesco ha voluto scandire la nostra lunga conversazione, ho anche scoperto d’avere più cose da dire di quanto immaginassi, frutto evidentemente del tempo che non è trascorso del tutto invano: a sessant’anni si vede che qualcosa si è sedimentato. Ogni capitolo prende spunto dal racconto di un pezzetto di biografia, e da lì prova a sviluppare una riflessione più ampia. Si parla quindi spesso di Bergamo, la città in cui sono cresciuto e di cui da sette anni sono sindaco, assurta in questo 2020 al ruolo di protagonista – suo malgrado – di una vicenda particolarmente dolorosa. Si parla anche di COVID, necessariamente, e anzi da lì si parte, avendo però scelto di farlo con misura, quasi fosse un antefatto. E poi di sanità, di giovani, degli squilibri tra città e aree interne, di Nord e Sud, di scuola, di lavoro e di welfare, di demografia e di immigrazione; molto ovviamente di politica, del PD, di come i riformisti possono, a mio avviso, affrontare e vincere la loro partita contro populisti e sovranisti; delle grandi trasformazioni del nostro tempo e di come sia importante accompagnarne gli effetti, del ruolo che l’innovazione potrà giocare nella battaglia contro il cambiamento climatico.

Per quanto ho potuto ho cercato di non fermarmi all’«elenco dei problemi», ma di prospettare anche ciò che, a parer mio, andrebbe fatto per affrontarli e cercare di superarli. Non si tratta in alcun modo di un «manifesto»; rileggendo le bozze mi è però parso che emerga una visione sufficientemente chiara e coerente, o almeno così spero che sia.