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Intervista per La Stampa di Lunedì 13 giugno

Con La Stampa si è parlato del fallimento del Referendum sulla giustizia, di seguito l’intervista completa.

” Il fallimento del referendum è dovuto a tanti motivi, compresa una scarsa convinzione di alcuni dei promotori come Matteo Salvini, ma il punto è che adesso il Parlamento ha la responsabilità di fare le riforme. Giorgio Gori, Pd, sindaco di Bergamo, ha votato sì ai quesiti e ora si rivolge proprio al suo partito, chiedendo di tenere fede all’ impegno di lavorare nelle sedi istituzionali.

Il referendum è fallito perché è stato boicottato, come sostiene Salvini?
«Ci sono più ragioni. La prima è che la natura molto tecnica dei quesiti non era semplice da comprendere per la maggioranza dei cittadini. Poi c’ è stata un complessiva cappa di silenzio che è calata sul referendum, se ne è parlato pochissimo. E una parte molto ampia delle forze politiche ha scommesso sul non raggiungimento del quorum».

Il suo partito, il Pd, era schierato per il “no”.
«Sì, ma va ricordato che il Pd ha richiamato in direzione la libertà personale su queste materie. Però da lì è venuta un’ indicazione di voto abbastanza netta. Ma la cosa paradossale è che tra chi ha scommesso sul fallimento del referendum annovero alcuni dei promotori: penso alla Lega, che dopo la raccolta delle firme non ha fatto poi molto, a parte Calderoli.
A conferma che la scelta di sostenere i referendum sulla giustizia era strumentale e superficiale. Del resto non ce ne stupiamo, se c’ è un partito giustizialista è la Lega. Questo atteggiamento ha danneggiato il significato stesso dello strumento referendario e ha fornito un alibi politico al no delle forze di sinistra».

Nel 2016 è stato Renzi a politicizzare, anche se in quel caso non era un referendum abrogativo. Stavolta è stato Salvini. I partiti farebbero meglio a stare lontani dai referendum?
«Non a caso nella tradizione italiana sono stati i Radicali, storicamente, a impegnarsi sui referendum. Un partito molto piccolo, che non era al governo.
Che siano forze di larga rappresentanza a raccogliere le firme alla fine rende tutto poco credibile. E poi, si arriva al referendum perché il Parlamento non ha fatto il suo lavoro. Ora però la responsabilità torna alle forze politiche: chi diceva che queste cose si fanno in Parlamento a maggior ragione oggi ha la responsabilità di portare avanti queste riforme».

Si riferisce al Pd?
«Ho molte aspettative sul mio partito. Spero non accada come dopo il referendum sul taglio dei parlamentari, quando si era detto che avremmo cambiato la legge elettorale e apportato correttivi per evitare distorsioni con il Parlamento ridotto. Speriamo che stavolta vada meglio, perché se le questioni affrontate da tre quesiti sono già di fatto contenute nella riforma Cartabia, ci sono due temi che restano aperti, per me i più significativi: l’ uso abnorme della custodia cautelare e la legge Severino che penalizza i sindaci».

La posizione del Pd pensa sia stata dettata dalla necessità di evitare frizioni con il M5s?
«Secondo me è stata una scelta tattica, per non aprire un ulteriore fronte di divisione con quelli che potrebbero essere gli alleati alle prossime elezioni politiche. Visto che ce ne sono già parecchie di divisioni. E forse anche per non aprire un esplicito conflitto con la magistratura. è dal ’92 – allora c’ era il Pds – che si è scelta una linea di totale condivisione dell’ operato della magistratura. Senza mai mettere in discussione un uso spregiudicato della carcerazione preventiva. Direi che siamo ancora lì sostanzialmente. Dopodiché, la ragione per cui si è scelto di schierare il partito per il “no” è stata di metodo, come detto. Una linea che mi sento di condividere, a patto che ora si lavori davvero in Parlamento per fare le riforme».”

Intervista di Alessandro Di Matteo per La Stampa.