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Il PD a congresso, il rischio gattopardi e la speranza Bonaccini: la mia intervista all’Huffington Post.

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, che giudizio dà di questa discussione attorno al manifesto del Pd? Non le pare francamente separata dalla realtà?

Assolutamente sì. Il messaggio che ci hanno dato gli elettori il 25 settembre non è “cambiate il manifesto”, ma semmai, cambiate la vostra classe dirigente. Siate coerenti con i vostri valori fondativi, non “cambiate i vostri valori fondativi”. E soprattutto: confrontatevi con la realtà, che è fatta da un paese che non cresce, che invecchia e che non offre prospettive ai suoi giovani. Avremmo bisogno di un’economia più dinamica, capace di generare benessere e risorse da redistribuire, e invece discutiamo dell’ordoliberismo, cioè di un fantasma.

Ecco, “coerenza” e “realtà”. Si processa il manifesto di Veltroni, ma ancora nessuno ci spiega perché si sono perse le elezioni. La provoco, si sono perse per colpa di Veltroni o per i dieci anni successivi?

Non scherziamo. Sii sono perse proprio perché il Pd si allontanato dalla strada tracciata da Veltroni. Il Pd di Veltroni raccolse 12 milioni di voti. Era un partito che parlava a tutti gli italiani. Oggi quei 12 milioni ce li sogniamo. Questo basta a capire quanto sia fuori strada chi pensa di rottamare quella stagione in nome di una fantomatica crociata contro l’“eccesso di liberismo”. Che poi, più che di Veltroni, quello era il manifesto di Prodi, scritto da figure come Sergio Mattarella, Luciano Violante, Pietro Scoppola e Michele Salvati. Oggi – con tutto il rispetto – abbiamo Emanuele Felice, Valentina Cuppi e Sandro Ruotolo.

Una postura subalterna a ogni governo a cui si partecipa, una campagna elettorale disastrosa all’insegna dell’allarme democratico, un rapporto coi cinque stelle passato da un accesso a un altro. Non sarebbe salutare un sano scontro sul principio di realtà?

E infatti è di questo, della realtà, di come costruire il futuro del Pd e del Paese, che dovrebbe vivere il confronto tra i candidati al Congresso. Sarebbe stato più opportuno e più semplice chiedere a coloro che si candideranno a guidare il partito di produrre un programma illustrativo delle loro idee, nella cornice dei valori fondativi del Pd, e confrontare questi programmi in contraddittorio. Sarebbe stato un percorso più trasparente e più rapido.

Diciamolo: col senno di oggi Letta si sarebbe dovuto dimettere, o no? Si sarebbe favorita una discussione vera.

Io, pur ringraziandolo per quanto ha dato al partito, penso che sarebbe stato molto meglio per tutti.

Chiudiamo il discorso sul Manifesto. Che senso ha farlo prima di eleggere il segretario? La “Costituzione” del cosiddetto “nuovo Pd” sarà scritta e approvata prima che parta il processo costituente vero e proprio….

E’ proprio questo il punto. A prima vista questa lunga “fase costituente” poteva apparire fumosa e poco utile, come lo sono state le Agorà. In realtà è molto più insidiosa. Perché quello che emerge dalla prima riunione del Comitatone voluto da Letta è il tentativo di cambiare la linea del partito, e prim’ancora i suoi tratti fondativi, prima e fuori dal Congresso, sulla testa dei militanti e degli elettori, per fare battezzare quella nuova da un’Assemblea che appartiene al passato e che è ad un mese della sua scadenza. Di costruire cioè una gabbia ideologica, per imbrigliare a monte il futuro segretario del Pd, soprattutto se risponderà al nome di Stefano Bonaccini.

La verità è che la costituente si è risolta nell’annunciato rientro di Articolo 1, ma non c’è il popolo. Cosa c’è di costituente in un gioco di posizionamento dei soliti noti senza popolo? Dove è la novità?

Rispondo con una battuta che ho letto da qualche parte: “Avevamo capito che Art.1 rientrasse nel Pd, non che il Pd stesse entrando in Art.1”.  Che un leader che non appartiene al Pd, Roberto Speranza, insignito del ruolo di “garante”, apra i lavori del Comitatone sostenendo che “l’intento del Pd dev’essere quello di espungere il liberismo che si è insinuato al suo interno” la dice lunga: stiamo seriamente rischiando di allontanarci anche da quei pochi elettori, eroici, che ancora si fidano di noi.

 

Sarebbe felice di un ritorno di Massimo D’Alema nel Pd?

Se fosse il D’Alema di “Un Paese Normale”, il D’Alema moderno e riformista di Palazzo Chigi, nei sarei felice. Ma temo sia oggi un’altra persona. E allora, più che il ritorno dei reduci, auspicherei l’ingresso di una nuova generazione, di giovani desiderosi di lavorare per il Pd del futuro, non per riportarci a prima del Pd.

Ce lo vogliamo dire che questo congresso è nato male? Tante chiacchiere su “rifondazione”, “ripartenza”, “identità”, ma la questione vera è elusa: un meccanismo correntizio che si autoalimenta. Uno si candida, si conta, si fa la corrente e vai così: Ricci, De Micheli, eccetera.

Che esistano delle correnti Ricci e De Micheli, aldilà di qualche fedelissimo, è tutto da dimostrare. Ma è evidente che le correnti sono in campo, e che hanno tutto l’interesse di evitare che il cambiamento sia vero e profondo, e che investa la classe dirigente. Tendenzialmente, più parlano di rinnovamento, di rifondazione, più aspirano a che tutto rimanga com’è.

Lei direbbe: “Sciogliamole”

Io dico: depotenziamole. Le correnti come luoghi di elaborazione e di pensiero sono positive e persino necessarie, ma le correnti come filiere di potere sono la gabbia che soffoca il Pd. Bisogna sottrarre loro il potere di fare le liste, quelle per le elezioni politiche come quelle per l’assemblea nazionale. Bisogna rompete i meccanismi di cooptazione basati sulla fedeltà a questo o a quel leader: fedeltà in cambio di carriera. Se perdono il potere di far fare carriera ai propri adepti, le correnti smettono di essere un problema.

 

Però anche lei, assieme a Bentivogli e altri ha scritto un documento. Un’area anche questa. Una corrente liberal.

Un’area di pensiero sì, una corrente no, non nel senso di filiera di potere. Io non faccio fare carriera proprio a nessuno, né aspiro a farla. E comunque laburista, prim’ancora che liberale. Abbiamo scritto un documento per porre il tema del lavoro, di tutti i lavori, al centro del dibattito congressuale. Della dignità del lavoro e della sua produttività. Del lavoro come strumento per superare le diseguaglianze e generare benessere. Della conoscenza come strumento di emancipazione personale e di innovazione. Fondamentale per alimentare la crescita. E tanti altri temi che caratterizzano un moderno approccio riformista.

Però il riformismo parte da una critica dell’esistente. Non è forse vero che il Pd ha smesso di criticare il capitalismo assumendo una postura un po’ troppo apologetica del mercato?

L’errore fatto dai partiti democratici e riformisti dell’Occidente – di fronte all’apertura globale dei mercati – è stato pensare che da lì venissero solo cose positive. Così non è stato. Se infatti la globalizzazione ha prodotto un generale riequilibrio della ricchezza tra le diverse parti del mondo, cosa assolutamente auspicabile, i suoi effetti nelle società occidentali sono stati assai più controversi. Interi settori economici sono stati spazzati via. Per una larga parte del ceto medio si è aperta una stagione di grande incertezza. In più il capitale finanziario, in grado di muoversi a suo piacimento, pare sfuggire ad ogni forma di regolazione. Significa che il mercato e la globalizzazione sono da buttare? Che dobbiamo tornare allo Stato imprenditore? Tutt’altro. Significa che serviva un accompagnamento che è mancato, e che in generale questi fenomeni vanno governati. Per fortuna alla riunione del Comitatone c’era Filippo Andreatta, a ricordare che l’accettazione del mercato come strumento di crescita economica era una delle cose migliori e più moderne della Carta del 2007. Lo è ancora, purché al capitalismo corrisponda una capacità di regolazione e redistribuzione dello Stato. Ossia il “capitalismo ben temperato” di Romano Prodi.

Lei chi appoggerà al congresso? Stefano Bonaccini?

Sì. Conosco Stefano Bonaccini da molti anni e lo stimo. Non mi limito a pensare che sia un ottimo amministratore. Penso che dal suo operato esprima una gerarchia di valori e una chiara visione degli strumenti con cui realizzarli. L’idea di una società dinamica e inclusiva fondata sul lavoro, sulla solidarietà e sul rispetto dell’ambiente è l’idea su cui il Pd deve a mio avviso provare a costruire il futuro dell’Italia. E’ una visione popolare, non elitaria, che salda libertà e giustizia sociale. E’ una visione concreta, pragmatica, tipica di un amministratore, nella quale un sindaco si riconosce naturalmente. E non è quindi un caso che tanti sindaci guardino a Bonaccini. Infine, esprime con chiarezza la volontà di liberare il partito dallo strapotere delle correnti. Stefano mi pare avere la libertà e la solidità per riuscire a farlo.

Mi perdoni, ma l’ho già sentite queste parole. Io però non ho ancora capito quale sia la sua linea. Che fa il Pd sull’immigrazione? Minniti o Palazzotto? Sull’Europa continua con l’europeismo acritico? Cosa significa andare oltre l’establishment nel quale si è rinchiusa, con quali proposte? Non c’è ancora nulla.

Sono convinto che ci sarà. Il percorso che è stato disegnato per il congresso è particolarmente lungo. Non ho però dubbio i candidati, Bonaccini per primo, andranno a caratterizzarsi intorno ad una linea politica, e nel farlo dovranno dare risposta ad ognuna di queste domande. Io saprei cosa risponderle, ma è importante che la mozione nasca dal contributo di tante teste, attraverso il confronto. Spero che i contenuti del nostro “manifesto laburista” trovino considerazione e spazio.

Abbiamo parlato del correntismo. L’altro male del Pd è il governismo che ha portato alla conseguenza che l’identità è diventata il governo “a prescindere”.

Recentemente ho letto molte dichiarazioni di autocritica rispetto al “governismo” del Pd, ossia al fatto di aver privilegiato la responsabilità di governo all’identità del partito: non le condivido. Se non avessimo deciso di governare con i 5Stelle, nell’estate del 2019, Salvini avrebbe stravinto le elezioni, avrebbe gestito – immagini come – la stagione della pandemia e non avremmo avuto alcun PNRR. Rivendico quindi quella scelta di responsabilità. E così quella che ha dato vita al Governo Draghi. L’errore non è stato partecipare al Conte bis, ma quello di risultare subalterni ai 5Stelle. Dalla prescrizione all’intangibilità dei decreti sicurezza e del reddito di cittadinanza, dall’uso del trojan al taglio dei parlamentari. Il problema non è governare, ma “come” si governa, cosa si fa.

Non pensa che il primo punto del programma di ogni candidato del Pd dovrebbe essere questo: mai più al governo senza passare per il popolo?

Non lo penso. Le elezioni sono certamente la strada maestra per andare al governo. Ma i casi che ho citato, l’estate del Papeete e la nascita del governo Draghi, dimostrano che in casi eccezionali la via parlamentare è opportuna, oltre che certamente legittima. Non è questione di governismo, è questione di responsabilità verso il Paese.

Intanto la Meloni un po’ di politica la sta facendo. Si doveva dividere la destra, invece ha spaccato le opposizioni. E’ colpito dall’inizio?

Per la verità no. Mi pare che a Giorgia Meloni non faccia difetto il realismo, e questo spiega l’ampia distanza tra le promesse elettorali e la prudenza che caratterizza la sua manovra di bilancio. Ci sono tuttavia una serie di misure – dalla flat tax incrementale per gli autonomi a Quota 103, dalla rottamazione delle cartelle all’esenzione del Pos fino a 60 euro – che rivelano una visione iniqua, miope e inefficiente, cioè sbagliata per l’Italia. Non so quanto terrà unita la destra. Noto il nervosismo di Forza Italia e il costante tentativo di Salvini, peraltro fallimentare, di dettare l’agenda con iniziative e dichiarazioni estemporanee.

Per ora ha tenuto agganciati gli alleati a un “doppio vincolo esterno”, atlantico ed europeo sulle compatibilità di bilancio. E non c’è una alternativa politica al suo governo. Da dove le verranno i problemi?

Dalla realtà. E mi dispiace invece che le opposizioni, aldilà delle differenze che le caratterizzano, non riescano a definire un coordinamento dell’iniziativa parlamentare. Temo pesi soprattutto la debolezza e la confusione del Pd.

Certo, la crisi del Pd è la sua polizza a vita. Per questo Giorgia Meloni sta regalando a Conte il ruolo di opposizione dura e vera. Più cresce Conte, e anche Calenda, più si allontana l’alternativa.

Conte fa principalmente della demagogia, sulle questioni nazionali come su quelle internazionali. Non penso affatto che il Pd debba inseguirlo su quella strada. L’opposizione dura e vera non è fatta di chiacchiere ma di idee e proposte alternative a quelle del governo, se non le si condivide. Piuttosto, era davvero impossibile condividere delle proposte con Calenda e sottoporle insieme al governo?

Anche Calenda però, scusi… Ha criticato Forza Italia di sabotaggio. Parla come se stesse in maggioranza.

Anch’io non ho capito quell’uscita. Se stai all’opposizione la compattezza della maggioranza non è un problema tuo. Questo giustifica le accuse di intelligenza col nemico che gli sono state rivolte? Secondo me no. Io faccio il sindaco, ho una maggioranza che mi sostiene e un’opposizione. E spesso penso che se l’opposizione fosse più furba sarebbe più propositiva, anziché dire sempre di no; perché non potrei sottrarmi ad accogliere una buona idea di quella parte, e questo metterebbe in difficoltà la mia maggioranza. Fortunatamente non si verifica spesso.

 

Elly Schlein: giovane, donna, ama una donna. E’ perfetta per interpretare una novità o è un’operazione gattopardesca, dietro la quale si nasconde la volontà di cambiare tutto per non cambiare niente?

Non conosco personalmente Elly, anche se mi incuriosisce, trovo che abbia una bella energia. Fatico però a immaginare che possa essere lei a rilanciare il Pd, che ha la necessità di riconquistare milioni di elettori per tornare ad essere il primo partito del Paese. Rispetto a questa sfida, Bonaccini mi pare sinceramente più attrezzato. In più, mi pare che intorno ad Elly, non certo per sua volontà, ci siano movimenti per nulla disinteressati. Faccio mia la domanda che qualche giornale attribuisce a Franceschini: “Secondo lei, chi vuole che tutto resti com’è, vota Bonaccini o Schlein?”

Lei ci rimarrebbe in un Pd guidato da Elly Schlein?

Non lo so. Vivo questo congresso come un’ultima occasione di rilancio per il partito al quale ho convintamente aderito nel 2011. Ho condiviso la sua Carta dei Valori, aldilà delle leadership che si sono alternate. Oggi leggo che qualcuno vorrebbe mandare quella Carta al macero, e sospetto che siano gli stessi che vorrebbero Elly Schlein segretaria, per dare vita alla “rifondazione”. Rispondo quindi: dipende. Se i fondamenti del Pd non verranno stravolti rimarrò in questo partito. Altrimenti prenderò atto del fatto che il Pd è diventato un’altra cosa, e mi riterrò libero di decidere il da farsi.

Pensa che anche parecchi elettori, come lei, difficilmente ci rimarrebbero?

Ecco, questa è la vera domanda. Io penso che molti si allontanerebbero. La “deriva francese” tante volte auspicata da Renzi – con un Pd sempre più piccolo e sempre più a sinistra – diventerebbe uno rischio concreto. Vogliamo darla vinta a Renzi? Io neanche per sogno.

 

 

Intervista di Alessandro De Angelis per Huffington Post. Data di pubblicazione: 2/12/2022